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Nando Dalla Chiesa - 26 giugno 2014

L’integrità come valore fondante della Costituzione

Mi è stato chiesto di parlare del rapporto tra integrità (professionale) e Costituzione e ho pensato di articolare il tema nel modo seguente. Parlerò dello sviluppo del rapporto tra etica e cultura della professione; analizzerò il rapporto che esiste tra etica e qualità sociale, collocando all’interno di questo discorso il ruolo delle professioni e delle organizzazioni sanitarie; e proporrò qualche nota finale sulla grande partita che si gioca intorno alla nozione di lavoro ben fatto.

Il rapporto tra etica e cultura della professione è un tema molto dibattuto in ambito universitario. Negli anni passati sono nate diverse discipline volte a introdurre l’etica nella formazione universitaria, generando nuove materie: etica degli affari, etica di impresa, etica della professione. Questo tentativo di costituire quasi uno statuto scientifico dell’etica, o delle etiche, segna il bisogno di liberarsi da antichi pregiudizi (la formazione professionale è una cosa, la morale un’altra). Introducendola in università, non si punta infatti solo a istituire una materia morale. Ma si propone una modalità specifica del pensiero scientifico, in grado di influenzare un ampio ventaglio di discipline all’interno del quale essa svolge un ruolo ispiratore e vincolante. Si tratterà ora di vedere quale sarà l’esito dell’ innovazione e se è davvero questo il modo migliore per formare alla dimensione etica le nuove generazioni.

Tale processo procede peraltro in parallelo allo sviluppo di un nuovo atteggiamento verso la realtà dell’ impresa, e si collega in particolare con il filone teorico della responsabilità sociale di impresa, per il quale si propone un problema analogo. Ossia se tale responsabilità possa essere definita e garantita attraverso la costruzione di teorie formali, insegnamenti universitari, l’introduzione di documenti, di dichiarazioni di principio, di carte dei principi e attraverso il ricorso a forme di comunicazione come il bilancio sociale. I due percorsi non sono si sono originati per caso, ma entrambi hanno cercato di interpretare una più alta domanda di etica che va manifestandosi nella odierna società italiana. Naturalmente tanto più questo avviene quanto più vengano avvertiti disagio o insoddisfazione verso la situazione presente e se ne vogliano rimuovere alcune caratteristiche strutturali o morali; la domanda di etica denuncia cioè una mancanza di etica. Credo che questo sia il punto di partenza: l’etica è entrata in università per simboleggiare una discontinuità, come segno distintivo, per conferire uno status superiore ai soggetti e alle imprese che se ne occupano e ne alzano il vessillo, proprio perché la società soffre una mancanza di etica, e ne produce una nuova domanda.

Come si può insegnare l’etica? È una questione che mi sono posto nel momento in cui ho pensato di istituire il primo corso in una università italiana di Sociologia della Criminalità Organizzata. Prima insegnavo materie di sociologia economica e di sociologia della organizzazione. A un certo punto mi sono chiesto se l’università dovesse rimanere inerte di fronte a ciò che accade nella società italiana sul versante decisivo della legalità. Alle istituzioni accademiche è richiesto o no di intervenire sul tema della legalità? e in che modo? Solo affrontando la questione morale e facendone quasi una materia indipendente, o affrontando i temi che mettono a repentaglio e attaccano più direttamente la dimensione etico-morale e i principi di legalità? Io ho scelto questa seconda strada, di insegnare Sociologia della Criminalità Organizzata, di spiegare i fenomeni che aggrediscono il tessuto etico del paese e di cercare di costruire sull’argomento nuova conoscenza, partendo dal presupposto che il livello della conoscenza possa alzare la stessa qualità etica dell’università.

Questo è quanto è poi successo da noi a Scienze Politiche a Milano: l’introduzione della materia non ha rappresentato soltanto una opportunità per ampliare le conoscenze degli studenti, ma è stata la premessa per un impegno di ordine etico e civile che sta segnando l’identità della facoltà, modificando pure -per via di effetti a catena- tessuto e qualità dell’impegno giovanile lombardo. Io vado in giro tutte le sere in Lombardia, partecipo a incontri sulla criminalità organizzata, sulla Costituzione, sull’etica delle professioni, sulla questione morale. E vedo sempre che li hanno organizzati miei ex studenti, i quali una volta finito il corso pensano di trasferire nell’ impegno pubblico quel che hanno appreso in aula, per elevare la qualità etica delle amministrazioni locali e della vita civile nel loro comune; e che per alzare il livello di informazione collettivo producono in proprio siti, giornali, convegni e attività di formazione.

Quell’intuizione aveva dunque un fondamento. Insegnare l’etica come materia a sé può essere certo utile ma fa guadagnare meno terreno rispetto a quello che può essere conquistato con un impegno direttamente indirizzato verso il primo avversario dei principi di legalità e di etica pubblica. Su questa linea abbiamo organizzato anche una Summer School intitolata “La tassa mafiosa”; per indicare quale prezzo il Paese deve pagare alla presenza della mafia e al connubio corruzione- organizzazioni mafiose, non soltanto in termini materiali ma anche in termini di qualità sociale e culturale, in termini di civiltà, subendo danni alcune volte misurabili dal punto di vista quantitativo, altre volte non misurabili ma del tutto visibili.

Questa premessa ci aiuta comunque a capire che, al di là dei metodi scelti per insegnarla, l’etica non può essere scorporata dalla cultura professionale, ma vi si deve invece incorporare come sua parte integrante: se rispetto i principi etici io sono un architetto, un avvocato, un medico, un amministratore, un giornalista più bravo. La competenza professionale, insomma, non può essere scollegata dalla dimensione etica nel momento in cui si voglia misurare la cultura professionale, che le comprende entrambe. La tesi che propongo è che la dimensione etica induce a sentire un livello di responsabilità professionale più alto e spinge perciò in avanti l’acquisizione delle competenze indirizzandone e collocandone l’uso sociale in un preciso orizzonte ideale. L’etica dunque non va considerato un freno per il dispiegarsi delle competenze, ma si pone come stimolo, strumento potente per svilupparle e orientarne l’utilizzo al servizio della collettività.

D’altra parte, se ci si pensa, le professioni si raccolgono in corporazioni o ordini legittimati proprio dal fatto di garantire l’impiego di quelle competenze professionali al servizio della collettività. Storicamente la giustificazione della loro esistenza è stata, e non per caso, sempre la stessa: non possiamo lasciare i cittadini soli davanti a una giungla di medici, avvocati o architetti e ai loro differenti, spesso inconciliabili, standard professionali. La società deve potere contare su professioni che vengono regolate al loro interno sulla base di principi etici di cui si garantisce all’esterno il pieno rispetto. Gli ordini professionali hanno solo questa vera legittimazione, non altre. E lo stesso controllo delle tariffe viene ideologicamente giustificato dal fatto che tariffe troppo basse potrebbero implicare un abbassamento del livello di professionalità e quindi un servizio più basso (o avventuroso) reso all’utente. Tutto, nella filosofia “ultima” degli ordini, è finalizzato a mettere al servizio della collettività le competenze di cui sono portatrici le professioni. Attenzione: non stiamo dicendo nulla di nuovo dal punto di vista formale, stiamo solo ribadendo le premesse di una sorta di patto civile in una società che tende spesso a distanziarsi nella quotidianità dai principi di cui rivendica l’osservanza.

Tutto ciò vale a maggior ragione per l’università. Io e i miei colleghi dobbiamo sapere che se è vero che l’etica fa parte integrante della cultura professionale, il professore universitario deve essere colui che più di chiunque incorpora nella sua cultura professionale la responsabilità sociale, l’etica della sua professione, perché è poi lui che la plasma (e ne plasma la percezione) nelle nuove generazioni. È una grande umiliazione per me sapere che alla facoltà di architettura dell’Università di Reggio Calabria è stato possibile per un rampollo di una delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta di San Luca sostenere nove esami in 45 giorni. O sapere che dei miei colleghi hanno venduto gli esami per un capretto o una partita d’olio, perché non è certo ammissibile che la missione del professore universitario venga vissuta in una logica di scambi particolaristici, per giunta di così basso rango. Non sto dicendo, ovviamente, che se il rango fosse più alto il particolarismo sarebbe stato lecito; sto dicendo che sono umilianti sia il principio sia il livello a cui si afferma. Non si può formare una cultura professionale che incorpori l’etica della professione, se l’università non si fa carico per intero davanti alla società italiana di questa sua funzione. Questo vale a maggior ragione in un comparto della formazione universitaria così delicato e potente come quello della medicina, che ha un ruolo riconosciuto quasi istituzionalmente nella redistribuzione delle risorse e del potere accademico. Essa forma infatti, tra tutte le professioni, quella deputata a trattare la materia più delicata, il bene più delicato che l’uomo abbia: la salute, la stessa vita. Non è un caso che tutte le ricerche sociologiche sul prestigio delle professioni dal 1930 ad oggi continuino a mettere in testa alle graduatorie il medico, seguito dall’avvocato, in quanto figure che tutelano due beni particolarmente preziosi come la salute e la libertà delle persone.

E’ possibile collegare, come mi è stato chiesto, questo discorso alla Costituzione? Credo di si. Perché la Costituzione è un sentiero lungo il quale non troverete mai la parola “rispetto”, solo che proprio questa parola (così in sintonia con la parola “etica”) la percorre tutta, tanto da sembrare l’ago e il filo che la cuce articolo per articolo . La si coglie, la si respira sempre: rispetto per i più deboli, per l’ambiente, per il paesaggio, per i diritti altrui, per le generazioni future, per le istituzioni. Non sarebbe stato possibile in quella epopea di riscatto morale pensare la Carta se non immaginando di dar vita, attraverso di essa, a una società senza soprusi e permeata da quel principio di responsabilità sociale richiamato nel famoso articolo 4, che stabilisce che “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.” Il rispetto si radica, in fondo, nel principio di responsabilità sociale affermato in questo articolo. Ciò di cui parliamo -l’etica nella professione- ha dunque un fondamento costituzionale. Può non avere uno sviluppo normativo dal punto di vista del diritto civile e penale (in cui pure trova spazio), ma ha un fondamento nel cuore del diritto costituzionale. Ci indica obblighi che possono non essere fissati attraverso norme di ordine civilistico e penalistico, ma che sono strettamente connaturati con la nostra identità di cittadini, con la funzione sociale che siamo chiamati ad esercitare e con il tipo di professione che “interpretiamo”.

Ed è esattamente il concetto di interpretazione quello che più si presta a spiegare in che modo la cultura professionale e l’etica della professione si integrano tra loro. Il concetto di interpretazione in effetti è importante, proprio pensando agli adempimenti burocratici e formali che costituiscono la base dell’azione del professionista. Riflettiamoci: in uno spettacolo teatrale un copione stupendo può essere letto da un cane che lo priva di qualsiasi bellezza e magia, ma può essere letto anche da un attore che lo trasforma in un poema assoluto. L’interpretazione del ruolo è quasi tutto. “Ruolo” viene notoriamente dal latino rotulus, la pergamena su cui sta scritto quel che andrà letto in scena. L’interpretazione del ruolo dice se io sono uno straordinario o un mediocre professionista. Fuor di metafora, leggo la stessa cosa, tecnicamente e teoricamente faccio le stesse cose, compilo e riempio gli stessi moduli, osservo le stesse prescrizioni formali, ma nel farlo posso essere un grandissimo o un mediocre. Il livello dell’interpretazione non lo può normare nessuno, ma dipende né più né meno dal tipo di cultura professionale di cui sono espressione, poiché è poi questa che mi porta a usare le mie competenze in un modo o nell’altro.

Costruire un elevato livello etico alza la qualità sociale. Venendo da studi economici mi piace usare, evocando il moltiplicatore keynesiano, la nozione del moltiplicatore etico. L’etica produce per la società opportunità di cui spesso non siamo consapevoli ed è anche per questa ragione che tendiamo a non valorizzarla a pieno, a non considerarla una potenza in grado di irrigare e rendere fertili i nostri rapporti sociali. Se è vero quanto si è detto prima sull’ “interpretazione”, l’etica ci aiuta ad alzare la qualità dei servizi. Si realizza un formidabile gioco cumulativo. Ciascuno di noi, praticando l’etica, alza la qualità del servizio che offre. Gli costa più impegno ma poi beneficia del fatto che anche tutti gli altri innalzano la qualità dei loro servizi. Ciascuno dà 1 e riceve 100. Un vantaggio immenso per la vita della collettività e di ogni singola persona.

Spesso sento dire, per giustificare la mediocrità dei servizi, che non ci sono le risorse per cambiare. Io ho visto la nostra università introdurre importanti cambiamenti mentre subiva tagli anno dopo anno. Ho visto asciugarsi i finanziamenti e nonostante questo produrre innovazione e cambiare il rapporto con gli studenti e la società. Certo le risorse in più fanno comodo, ma l’innalzamento della qualità del servizio è spesso possibile anche a parità di risorse. E se una elevata cultura professionale potrebbe fare ottimamente fruttare risorse aggiuntive, una modesta cultura professionale potrebbe farne invece pessimo uso. Piuttosto una cosa è senz’altro vera: un alto livello etico porta, in ogni campo, ad allocare le risorse in modo non particolaristico, ma inserendole all’interno di un disegno generale, ovvero di massima valorizzazione possibile dei bisogni e delle domande sociali. Se i criteri di allocazione delle risorse rispondono a principi etici, queste risorse hanno cioè una produttività più alta. Ma questo vale poi anche per quella specialissima risorsa che sono le persone, e dunque per i processi di selezione del personale: dove esiste la dimensione etica tali processi obbediscono a criteri di merito e non di fedeltà o di interesse personale o di gruppo. E consentono quindi di mettere le persone migliori nei luoghi di massima responsabilità. Provando a fare esempi nella mia materia (e ovviamente riferendomi a un interesse generale sui generis), non c’è dubbio che la criminalità organizzata metta nei posti più importanti le persone più capaci. Purtroppo non altrettanto avviene, per assenza di spessore etico, sul fronte opposto. Nell’ intervista rilasciata a Marcel Padovani pochi mesi prima di morire, Giovanni Falcone fa un’osservazione importante: nota che noi spesso chiamiamo i mafiosi “soldati” della mafia, laddove invece sono tutti dei generali, perché ognuno di loro è in realtà passato per una selezione naturale durissima, perché nelle organizzazioni criminali sono i migliori che giungono a posizioni di responsabilità, naturalmente “i migliori” in relazione agli scopi e ai principi dell’organizzazione. Falcone racconta nella stessa intervista, nel merito della questione, un episodio di indubbio valore autobiografico. A Padovani, che gli chiede che cos’è la mafia, risponde raccontando che c’era un suo collega romano a cui toccò di interrogare Frank Coppola, noto mafioso americano degli anni ‘60-‘70, e che gli chiese appunto che cosa fosse la mafia. Coppola invece di rispondere -classicamente- che la mafia non esisteva, gli rispose con una metafora: “Sig. Giudice facciamo conto che concorrano ad un posto di procuratore un giudice intelligentissimo, un giudice molto appoggiato dai partiti di governo, e un giudice cretino , vincerà il cretino. Questa è la mafia, signor giudice”. Vien da pensare che Falcone racconti questo episodio anche perché lo ha vissuto in diretta: perché pur essendo il miglior giudice in assoluto in tema di lotta alla mafia, quello più capace di capirla e di combatterla, quando nel 1988 si è dovuto nominare il capufficio istruzione a Palermo gli è stato preferito un collega che nulla sapeva e capiva di mafia, tale indimenticabile dottor Antonino Meli, del quale si diceva come massimo attributo professionale che avesse militato per decenni nella magistratura “senza demerito”. Quando quindi Falcone ci consegna quell’episodio ci dice che noi non siamo come “loro”; che mentre loro mettono ai vertici delle proprie organizzazioni i più bravi, noi non lo facciamo perché non decidiamo secondo criteri etici, perché la nostra cultura professionale dimentica l’interesse generale e rifluisce verso interessi particolari, rendendoli dominanti al momento della decisione. È per questa ragione che un giudice mediocre può andare alla testa di un ufficio giudiziario decisivo in una città decisiva come Palermo.

E tuttavia questo non è un discorso che valga soltanto per spiegare l’influenza della mafia. Perché, ecco la domanda, se la mafia si sa procurare il giudice cretino nel momento decisivo quante volte, nelle varie branche pubbliche, glielo mettiamo noi su un vassoio d’argento? Quante volte nei processi di selezione premiamo le persone meno indicate? E’ una sorta di autolesionismo organizzato, che ha all’origine una ragione semplice: nei posti cruciali devono stare, nel massimo numero possibile, persone la cui dimensione etica sia in equilibrio con il basso livello etico della società, così da non creare problemi di “coerenza sistemica”. Per questo i mediocri fanno carriera. La lezione da trarne è che l’osservanza della dimensione etica consente processi di selezione del personale più coerenti con l’interesse collettivo. E che è dunque, di nuovo, premessa di una più alta qualità sociale.

Ma l’etica offre alla società anche un altro importante vantaggio: quello della semplicità normativa. Più ampia è la dimensione dell’etica, meno si avrà bisogno infatti di ricorrere alla legge. La nostra società sta ormai normando tutto, spinta dal bisogno formale di ribadire sempre e ovunque, con la forza della legge, principi di correttezza; il bisogno (formalmente condiviso) di etica ha generato la presunzione che si debba e si possa regolare con i codici e i regolamenti tutta la vita sociale. Per questo se io in università devo prendere una segretaria per un mese, e per 1000 euro al mese, devo fare un bando che poi deve essere mandato alla Corte dei Conti che lo deve approvare, e che mi tiene in ballo questo incarico per un mese e mezzo. Non si parte dall’idea che io non potrei, per comune senso del pudore, ingaggiare mia sorella o la mia amante come segretaria. Si parte dall’idea che io lo possa fare e che la nostra società sia eticamente organizzata in modo da consentirmelo; e che siccome questo non è giusto, ogni passaggio relativo debba essere normato. Ma la società non può essere fondata su un immenso, infinito regolamento di condominio. L’etica ci regala dunque la semplicità normativa perché, dove essa ha influenza, l’edificio sociale si fonda a sufficienza sulle convinzioni delle persone, sulla loro cultura. Per questo quando ci si interroga su quali sarebbero oggi le riforme più necessarie, la risposta più saggia dovrebbe rinviare alla riforma “delle teste” (le teste “ben fatte” di Edgar Morin…), certo più efficace che continuare a scrivere sempre nuove leggi, leste a essere aggirate dai disonesti e destinate per contro a gravare in eterno sul lavoro degli onesti.

Infine, aggiungiamolo, l’etica è produttrice di fiducia, verso i nostri interlocutori e verso il sistema nel suo insieme. E la fiducia, come hanno messo in luce biblioteche di studi economici e sociologici, è una risorsa impagabile, preziosissima; essenziale per garantire qualsiasi possibilità di sviluppo economico. Non credo che sia un tema che richieda approfondimenti in questa sede. Ma certo nella nostra prospettiva occorre tenerne il massimo conto.

Sino a qui ho dunque indicato cinque piani– la qualità dei servizi, l’allocazione delle risorse, i processi di selezione delle persone, la semplicità normativa, la fiducia – su cui lo sviluppo della dimensione etica produce una lunga catena di vantaggi sociali, spesso in sinergia diretta (in alimentazione reciproca) tra loro. La loro osservazione ci permette ora di affermare che il moltiplicatore etico esiste davvero; che attenersi all’etica non significa rinunciare a possibili vantaggi in nome di valori giusti ma astratti, ma significa disegnare e difendere un concreto sistema di opportunità sociali. Significa investire socialmente.

Ed è a questo punto che credo si debba anche sottolineare il ruolo che gioca in questa grande partita il settore sanitario, beneficiario dell’80% della spesa regionale. Beneficiario quindi di risorse pubbliche immense, di cui nessuno discute in assoluto l’utilità, ma che diventano l’arena in cui, o attraverso cui, si organizzano interessi di natura illegale con drenaggio di risorse importanti a vantaggio di finalità antisociali. In tema richiamo spesso un esempio che può parlare più di qualsiasi teoria. Ho fatto un calcolo su una sola tangente che, secondo i giudici, è stata pagata dalla Fondazione Maugeri di Pavia all’Assessorato alla Sanità della Regione Lombardia: si trattava della ricompensa per una colossale elargizione che era andata alla stessa Fondazione. Ebbene, quella sola tangente era l’equivalente di 2.000 assegni di ricerca. Mentre pronunciamo la cifra (duemila…), si materializza davanti a noi un popolo di ricercatori, che va dagli archeologi ai biologi. Un popolo che però non c’è nella realtà, annullato da quella tangente. E in cui puoi tranquillamente mettere idealmente i tuoi laureati migliori costretti ad andare all’estero “perché i soldi non ci sono”. Quella tangente è stata erogata dentro una visione del sistema sanitario che prevedeva perfettamente che la spesa pubblica venisse organizzata secondo quei principi, per costruire una struttura e una rete di potere compiutamente organico e strategicamente orientato.

Come direttore dell’Osservatorio sulla criminalità organizzata dell’Università di Milano sto dirigendo una ricerca per la presidenza della Commissione Parlamentare Antimafia sulle organizzazioni mafiose nelle regioni del nord. La seconda relazione che stiamo preparando sarà dedicata alle loro attività economiche legali. Ecco, tra i campi di azione delle organizzazioni mafiose brilla ormai proprio la sanità. D’altronde sarebbe impensabile che esse rinunciassero a mettere gli occhi su quell’ 80% della spesa delle regioni. Non dimentichiamo che è per la sanità che in Calabria, nel 2005, viene ucciso il Vicepresidente del Consiglio Regionale Francesco Fortugno. Non dimentichiamo cioè che per la sanità si uccide. Per questo definire e difendere elevati standard etici nel sistema sanitario diventa una garanzia perché esso non venga progressivamente penetrato e “mangiato” da questi interessi. E’ probabile che entro uno-due anni questo bubbone scoppierà. Per ora si “assaggia” , con preoccupazione, qualcosa qua e là: il direttore generale dell’Asl di Pavia che viene arrestato con l’accusa di essere affiliato alla ‘ndrangheta, un altro che viene filmato dai carabinieri perché anche lui ha rapporti con elementi della ‘ndrangheta…. Ed ecco che torniamo al problema di prima. Bisogna dedicare attenzione etica a come avviene il processo di selezione delle persone: chi sceglie (o “prende”, in gergo) il direttore generale, chi il direttore del personale, chi il direttore degli acquisti. Bisogna (responsabilmente…) impiegare una logica strategica simmetrica a quella dei clan: guardare i precedenti penali, i precedenti di etica pubblica, il mondo di relazioni che le persone rappresentano. Difficilmente chi ha dietro di sé i milieu mafiosi spicca fra l’altro per competenze professionali.

Il guaio è che molte volte il processo di selezione risente di una declinazione totalmente particolaristica delle capacità professionali (quanto sai fare al mio servizio). Ecco perché la sanità diventa sempre più oggetto di una cruciale partita economico-sociale nazionale. Di una partita di civiltà. L’Italia si è spesso fatta vanto di avere un sistema sanitario capace di assicurare livelli di protezione universalistici, volto a tutelare anche i cittadini più deboli. Ha spesso presentato il proprio sistema sanitario come il migliore dei sistemi possibili. Ma è evidente che se esso viene impiegato per foraggiare le organizzazioni criminali questo discorso non vale più. Credo sia importante allora che proprio il sistema scopra in sé, e autonomamente proponga, la forza e l’utilità della dimensione etica, e che in questo quadro di mobilitazione civile le professioni sanitarie scelgano di rispondere solo ai principi contenuti nel famoso giuramento di Ippocrate.

Resta infine la scommessa del lavoro “ben fatto”. Proprio quest’ultimo aiuta le società a contrastare le possibili forme di tirannia (o di dominio feudale). Per quanto possa sembrare strano, il lavoro ben fatto esprime infatti, più che una disciplina interiore verso un ordine costituito, la ribellione all’idea di rinunciare alla propria libertà e individualità. E’ esso, anzi, il primo presidio della libertà. Ci sono pagine bellissime scritte da Václav Havel sul comunismo appena crollato nell’allora Cecoslovacchia, nelle quali viene messo in risalto il ruolo del lavoro ben fatto come antidoto al totalitarismo; perché nel totalitarismo l’amore per la propria creatività e individualità non è previsto, né è prevista la qualità della persona in un sistema che si fonda, alla fine, sull’ “uomo senza qualità”. Perfino il lavoro ben fatto dell’ortolano, dice Havel, può contrastare il regime. Questa è oggi la scommessa che abbiamo davanti. Il lavoro ben fatto esprime un senso alto della cultura professionale, esprime la capacità di interpretare al meglio il proprio ruolo sociale, di valorizzare e liberare la propria identità. Il lavoro ben fatto: contro il comunismo nella Cecoslovacchia di Havel intellettuale incarcerato, ma anche contro le organizzazioni criminali e la corruzione nel nostro Paese; stella polare per una società che voglia fare i conti con gli effetti del primato della corruzione.

Ma come trasmettere l’etica, a questo punto? Semplice. Con l’esempio che contagia, prima di tutto. E rafforzando i buoni esempi -vengano dal ministro dall’insegnante o dall’ortolano- con l’esercizio di un controllo diffuso sui comportamenti antisociali. Chi produce il lavoro malfatto, sciatto, irresponsabile, deve sentirsi socialmente controllato e sanzionato; e dunque stimolato, incentivato a produrre anche lui un lavoro ben fatto. A chi denuncia il “moralismo” di queste posizioni bisogna ricordare una cosa sopra tutte. Che la società della corruzione è una società di mediocri, che mortifica sia i più capaci sia il lavoro ben fatto perché ha un fine principale: garantire gli equilibri di sistema che servono a riprodurre la corruzione. Quelli dove con l’etica sprofonda anche la qualità sociale.

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