Gli strumenti per rendere le aziende sanitarie più integre
Ezio Farinetti – Angela La Gioia
Gruppo Abele Torino
Vogliamo ragionare su alcuni aspetti legati al lavoro di prevenzione della corruzione nelle singole aziende sanitarie e alle sue implicazioni a livello organizzativo. Accanto al principio del “cambiare si può”, la nostra esperienza ci porta a portare anche un principio di realtà che ci dice “cambiare si può prendendosi cura di alcune condizioni”, perché il termine cambiamento è una di quelle parole che rischiano di essere usate molto e praticate poco. Soprattutto laddove il cambiamento nelle organizzazioni arriva da dispositivi normativi esterni: ecco perché diventa importante ragionare sui cambiamenti che sono possibili e su quali possono essere le condizioni per far si che nelle nostre organizzazioni si innestino dei cambiamenti in funzione dell’integrità e trasparenza.
Uno dei rischi evidenti in un cambiamento verso l’integrità è quello di un’adesione formale, senza nulla di concreto, non creando le condizioni per portare avanti un cambiamento sostenibile. Altre volte invece si ha la fantasia di cambiamenti rivoluzionari in cui tutto cambia e dove troviamo aspettative magiche, ciascuno le proprie, al cambiamento. Teniamo presente che da un punto di vista culturale che uno dei testi letterari che ci dice di più sui cambiamenti organizzativi è il Gattopardo, che ci parla di un cambiamento dichiarato che dovrà avvenire, che sarà salvifico e che alla fine comporta una restaurazione di ciò che era già presente. Ecco perché talvolta determinati appelli e figure del cambiamento rischiano di essere sovrainvestiti di aspettative e poi alla fine le rivoluzioni generano una restaurazione. Abbiamo pensato di fissare alcuni punti che possono esserci utili per ragionare sul cambiamento nelle organizzazioni in merito agli argomenti trattati.
La prima fase di un reale cambiamento organizzativo è stare fermi, conoscere l’organizzazione e analizzarla, il non pensare che esistano ricette universalmente valide per il cambiamento organizzativo. Esistono buone pratiche ma è importante capire come tradurle nel nostro contesto, con le sue specificità. Ecco perché è importante per chi ha una funzione di analisi e predisposizione di strategie di cambiamento, prima di pensare ad una soluzione ideale soffermarsi sul conoscere l’organizzazione, osservarla, analizzarla, capire come si muove la distribuzione dei ruoli, gli strumenti, le procedure, le abitudini. Su queste bisogna focalizzarsi tanto perché l’organizzazione è molto fondata sulle abitudini: queste sono un’ottima cosa, sono economia cognitiva, il rischio però è che le abitudini impigriscano il pensiero nell’organizzazione, allora ogni tanto vanno sottoposte a monitoraggio, a revisione. Noi talvolta in quanto agenti di cambiamento siamo dei disturbatori perché talvolta dovremmo andare a rompere determinate abitudini o a riformulare determinate procedure, cosa che normalmente non è bene accetta. Da questo punto di vista diventa importante fermarci prima di pensare a quali azioni e quali strategie: la prima azione è fermarci e conoscere la nostra organizzazione e cercare di analizzarla, di leggerla di capire i ruoli, le dinamiche, le procedure, le esperienze. Altrimenti il rischio è che pensiamo che una strategia di cambiamento sia un qualcosa di astratto che può essere applicato indipendentemente alle singole organizzazioni, mentre in realtà funziona laddove riesce a tener conto delle caratteristiche del contesto.
La prima cosa è conoscere l’organizzazione e i fattori che possono facilitare o frenare il cambiamento. Il cambiamento funziona quando è partecipato: questo comporta due cose sostanziali, a proposito di fattori di rischio. Il primo rischio è la personalizzazione della prevenzione della corruzione: il referente anticorruzione, così come qualsiasi altro agente di cambiamento è chiamato a curare un processo, non a sobbarcarselo interamente sulle sue spalle. Il rischio della personalizzazione è che lui diventi all’interno dell’organizzazione il ministro del cambiamento, e da questo punto di vista si innesterebbe inevitabilmente una dinamica di capro espiatorio. Nel caso in cui il cambiamento faccia fatica a funzionare, la colpa sarebbe del responsabile per la prevenzione della corruzione. Diventa importante quindi contrastare questa dimensione personalizzatrice e cercare di far si che chi ha questa responsabilità accompagni il cambiamento come una funzione. E’ importante per prima cosa pensare insieme ad altri alle chiavi di cambiamento, quindi cominciare a pensare a cambiamenti possibili insieme ai diversi referenti in modo che si rompa il meccanismo personalizzante. Inoltre l’ideale sarebbe non creare un ufficio anticorruzione, ma bensì una funzione anticorruzione diffusa all’interno dell’organizzazione. Ecco perché diventa importante, quando andiamo a definire le strategie, pensare di non chiudersi nel proprio spazio per creare un piano perfetto, difficilmente applicabile laddove diventa eccessivamente mio e non nostro nei termini dell’organizzazione. Ecco perché è importante creare, soprattutto all’inizio, situazioni condivise con i diversi referenti di area, in modo tale da ragionare insieme di questa funzione, per evitare il fatto che il referente anticorruzione venga sovraccaricato di una funzione di cui è unico parafulmine.
La dimensione partecipativa è quindi un elemento centrale, più le persone sono soggetti attivi e non semplicemente oggetti o destinatari di un piano di cambiamento, più si impegneranno in questa direzione perché saranno parte di questo processo. Laddove lavoriamo per un processo di cambiamento in cui i destinatari si sentono passivi all’interno del processo ci sarà una notevole demotivazione a cambiare e una notevole implementazione delle resistenze. Ecco perché diventa importante capire e innestare spazi di partecipazione, capire quale partecipazione è possibile. Perché non sempre partecipazione vuol dire decidere tutti insieme, ognuno di noi ha i propri ruoli e responsabilità e talvolta una persona che ha responsabilità deve decidere qualcosa: un buon livello di partecipazione in certi momenti di cambiamento organizzativo è ad esempio una buona informazione. Semplicemente determinate organizzazioni mentre cambiano non informano i membri del cambiamento che sta avvenendo, quasi per un aspetto protettivo, quasi per dire ve lo dirò solo quando avremo finito di cambiare, e c’è questo passaggio di cambiamento, questo passaggio stressante in cui nessuno sta informando di ciò che sta succedendo, magari anche dell’incertezza delle persone che stanno pensando e vivendo questo cambiamento organizzativo.
Talvolta partecipare non vuol dire decidere ma rendere più diffusa la comunicazione e l’informazione su ciò che sta succedendo, non c’è niente di più disagiante in un’organizzazione di un cambiamento in corso di cui nessuno viene informato, perché lì vige totalmente la paranoia, vige il corridoio e quando vince il corridoio diventa molto difficile eliminare certi fantasmi, perché normalmente i fantasmi del corridoio fanno più paura di quelli ufficiali, e magari il cambiamento ha dimensioni molto più piccole di quelle che noi temiamo. Altre volte invece diventa importante aprire spazi di partecipazione propria laddove su determinati cambiamenti viene richiesto il feedback degli operatori. Diventa però importante aprire situazioni in cui raccogliere i feedback dei membri dell’organizzazione quando poi ce ne facciamo qualcosa di questi feedback. Non c’è niente di più stressante di cassette delle lettere, di consigli all’organizzazione che poi vengono aperte e non utilizzate. Determinati processi di feedback sono così, è richiesta l’opinione ma non ci si prende cura delle opinioni che arrivano. Magari si possono pensare anche piccoli momenti di feedback, quando abbiamo già una cornice di cambiamento ma abbiamo bisogno di aggiustamenti allora possiamo chiedere dei feedback a colleghi, membri, parte dell’organizzazione: è importante capire che questi feedback dovranno poi essere utilizzati.
La cultura dell’organizzazione è un altro aspetto centrale. La cultura è tutto ciò che circola all’interno dell’organizzazione senza essere formalizzato e spesso è ciò che è più incidente. E quindi è importante tener presente che ogni organizzazione ha una propria cultura, ha alcuni elementi che non sono formalizzati, non sono presenti all’interno di documenti o altro. Ma molto spesso ci sono una serie di segnali nel modo in cui l’organizzazione lavora, decide , organizza i propri ruoli che ci dicono molto delle culture organizzative. Quando andiamo a conoscere l’organizzazione dobbiamo tener presente questi aspetti, laddove ci sono organizzazioni che hanno una connotazione estremamente verticistica allora dobbiamo tener presente questa geometria per evitare di aprire spazi più orizzontali e partecipativi per cui questa cultura non è pronta. Magari diventa utile tener presente geometrie o architetture, proposte di cambiamento che tengano conto anche di questo, lo stesso vale per il clima che riguarda le relazioni delle persone all’interno dell’organizzazione.
Dal nostro punto di vista anche i cambiamenti organizzativi in funzione della trasparenza riescono a funzionare quando creano un clima attento alle relazioni, da una dimensione di presenza, di controllo, senza creare un clima poliziesco e investigativo. Un’organizzazione che traduce il controllo e il presidio dell’integrità in una dimensione estremamente poliziesca rischia di innescare resistenze: io sarò molto meno interessato a portare le mie osservazioni e il mio contributo perché c’è un elemento che inevitabilmente blocca i flussi di comunicazione. Ecco perché quando noi andiamo a parlare di prenderci cura del clima e della cultura delle nostre organizzazioni dobbiamo pensare ad una attività di controllo, senza che questa si connoti con un’istanza investigativa. Laddove c’è un eccesso di controllo disciplinare lì si creano resistenze e meno possibilità che vengano fuori determinati fenomeni, o quando vengono fuori sono ormai molto gravi.
Semplicità e trasparenza sono importanti per contrastare meccanismi di corruzione e opacità. Chi si prende cura di un cambiamento organizzativo, deve prendersi fortemente cura di una funzione di comunicazione agli altri membri dell’organizzazione, garantire accesso informativo, garantire circolarità informativa. Si tenga presente che a proposito di culture organizzative in certe organizzazioni l’informazione è potere, non ti dico qualcosa perché in questo modo ti cedo potere: informazioni che sarebbe importante diffondere diventano merce di scambio in termini di dinamiche di potere. Laddove esiste un conflitto organizzativo in termini di accesso informativo creiamo situazioni in cui il cambiamento organizzativo è difficile. A proposito di alcune situazioni di resistenza al cambiamento il potere c’entra tantissimo: a proposito di equilibri e abitudini se io vado a cambiare un’organizzazione, vado a rompere dimensioni di potere e chi ce l’ha non è interessato a lasciarlo.
Noi pensiamo che il cambiamento debba scontrarsi con una certa gradualità e sostenibilità, evitando strategie del tipo rompo e cambio tutto contemporaneamente, perché normalmente, tranne alcune organizzazioni che solitamente sono piccole e private (quindi non le nostre) questa modalità di cambiamento è destinata a fallire. Ecco perché diventa importante ed efficace una gradualità del cambiamento, la capacità in qualche misura di poter individuare alcune aree e dedicare determinati cambiamenti su questo ambito, in modo da andare piano piano a cambiare e a consolidare quello che è un contagio positivo. Lavorare su cambiamenti di piccola scala ci permette in primo luogo di avere una maggiore possibilità di intervento, in secondo luogo di avere contesti più protetti e se la cosa funziona possiamo poi innestare vantaggi positivi affinché altre aree possano essere interessate da questa spinta. Ecco perché diventa utile riuscire anche nelle nostre organizzazioni a non pensare che il cambiamento debba riguardare contemporaneamente tutte le aree, ma magari concentrare l’attenzione su alcune di esse perché più sensibili o problematiche o per altri criteri. E poi da lì cominciare a sperimentare piccoli passi di cambiamento, senza pensare che debba esser fatto a grandi falcate perché normalmente non funziona.
Il cambiamento prevede una dimensione temporale. Diventa importante una prospettiva di lungo termine, essendo così una occasione per creare una visione. Diventa tuttavia altrettanto importante graduare obiettivi a medio e breve termine, in quanto esperienze di cambiamento che hanno solo indicato l’orizzonte, senza vedere il territorio intermedio, normalmente si sono esaurite prima di arrivare laggiù. E questo diventa importante anche in termini di spinta motivazionale per i membri dell’organizzazione vedere che il cambiamento sta già avvenendo, magari a piccoli passi, magari in piccole esperienze. Non possiamo pensare che la spinta innovatrice possa essere esclusivamente sostenuta da un orizzonte lontano, perché normalmente il solo riferimento all’orizzonte lontano non funziona. Ecco perché obiettivi realistici a medio e breve termine funzionano, perché danno l’idea di un processo che sta già avvenendo. Le ricadute, i cambiamenti e le modifiche devono essere molto visibili e molto chiare e questo un po’ si collega a quanto dicevamo prima sugli obiettivi a breve termine. Al di là di giusti interventi motivazionali che siamo chiamati a portare, non c’è incentivo migliore al cambiamento che i cambiamenti in atto e vedere cambiamenti possibili e praticabili. Renderli condivisibili e visibili diventa un rinforzo alla spinta innovatrice, ecco perché è importante ragionare in termini di imperfezione perché i primi cambiamenti non sono esattamente traduzione di ciò che noi vorremmo, però stiamo dicendo ai nostri colleghi che cambiare si può e portiamo come prove le piccole azioni che vengono portate avanti. Perché l’organizzazione ha pancia e occhi e quando vede cambiamenti in atto ciò rinforza la disponibilità a cambiare, ecco perché i cambiamenti rivoluzionari e a lungo termine sono più faticosi, perché non si vedono nell’immediato segni tangibili di quelli che possono essere cambiamenti praticabili.
Questo perché un po’ tutta la letteratura e tutto il pensiero sul cambiamento organizzativo ci riporta il fatto che noi possiamo pensare a piani di cambiamento perfetti, ma quando lo abbiamo pensato abbiamo fatto il 30% del lavoro. Il 70% è rendere parte di questo piano di cambiamento realizzabile ed è lavorare affinché le persone facciano proprie e sentano loro queste proposte di cambiamento. Il rischio altrimenti è di avere ottimi piani di cambiamento che rischiano di rimanere lettera morta. È necessario l’allineamento di tutti, nel senso che esperienza e letteratura ci dicono come debba esserci un impegno trasversale a tutti i livelli operativi, verso una strategia di cambiamento. Non possiamo pensare che sia una questione che riguarda solo alcuni livelli e non altri, in particolare per quanto riguarda il ruolo dirigenziale laddove una delle resistenze che emergono maggiormente è “io non cambio finché il mio capo non cambia”. Questa è una osservazione di una resistenza importante e interessante perché spesso pensiamo a situazioni di cambiamento indirizzate ai livelli più basilari e operativi che non tengono conto del fatto che ci deve essere un allineamento e una percezione che tutti i livelli sono impegnati in quella direzione, e non può essere solo questione di pochi.
Definire un cambiamento come processo significa capire che il cambiamento non è un qualcosa di assoluto, è sempre qualcosa che deve essere flessibile, ecco perché ogni volta che pensiamo al cambiamento agli strumenti delle nuove procedure dobbiamo darci dei tempi di verifica non solo formali ma reali, in cui vediamo che questa strategia sta funzionando e se sta funzionando la consolidiamo oppure la modifichiamo in itinere. Ci diamo un mese, o sei a seconda delle caratteristiche e degli strumenti per poter curare questo processo e non pensare che una volta instaurata una procedura o uno strumento questo diventi definitivo perché spesso ha bisogno di taratura, o magari lo abbiamo tarato su determinati bisogni senza considerarne altri. Teniamo conto di questo, un buon cambiamento tiene sempre conto delle resistenze, non è che per cambiare bene bisogna negare le resistenze al cambiamento. Spesso le resistenze sono fondamentali fonti di informazioni. Le resistenze sono legittime, persone contrarie a determinate ipotesi di cambiamento magari hanno in mente cose sulla nostra organizzazione di cui noi non avevamo tenuto conto. Ecco perché il modo migliore per facilitare un processo di cambiamento è ascoltare le resistenze, più noi riusciamo a rendere le resistenze evidenti, e parlarne, meno le resistenze lavorano sotto traccia. Le resistenze sono difficili da gestire quando non vengono esplicitate, quando sono in un apparente armonia e poi sottotraccia vediamo che molte persone avevano pensato che un dato esperimento non avrebbe funzionato.
Spesso abbiamo l’idea di essere al primo cambiamento nella nostra organizzazione invece non è quasi mai così, le nostre organizzazioni hanno già vissuto dei cambiamenti e allora è importante capire quanto possiamo apprendere da quelli passati. Si dice che le organizzazioni che sanno ben cambiare sono quelle che sanno apprendere dalla loro esperienza e dai loro sbagli: molto spesso noi quando facciamo errori o esperienze che non funzionano tendiamo a rimuoverli, a non tenerne conto perdendo un’occasione, perché anche gli errori ci dicono molto della nostra organizzazione, ci danno molte informazioni che potranno poi essere utilizzate in un altro momento. Ecco perché molto spesso quando predisponiamo dei piani di cambiamento dobbiamo anche pensare a quali cambiamenti ci sono stati all’interno della nostra organizzazione , quali hanno funzionato e perché, quali non hanno funzionato e perché, per evitare di fare quello che fanno gli esseri umani normalmente quando non si fermano a riflettere sui propri errori, rischiando così di ripeterli.
Ultimo aspetto, molto spesso si ha l’idea che il cambiamento sia un qualcosa di esclusivamente cognitivo quindi solo di pensiero, mentre normalmente i cambiamenti che funzionano comportano il prendersi cura del lato emotivo, perché i cambiamenti rompono degli equilibri, generano ansie, paure, alcune legittime, altre meno, ma in quanto circolanti nell’organizzazione devono essere punti di incontro. Ecco perché coloro che si prendono cura dei cambiamenti organizzativi devono essere in grado di restituire il quadro, la cornice, restituire pensiero a ciò che sta avvenendo. Ma anche prendersi cura e dar voce alle ansie e alle paure circolanti, semmai fermarsi e chiarirle, perché altrimenti il rischio è che stacchiamo questi due elementi e queste ansie diventano ostacoli al cambiamento, diventano gli elementi che non ci permettono di andare avanti. Allora diventa importante se stiamo rivedendo una procedura o innestando un nuovo strumento la paura di avere più lavoro, la paura di non sapere cosa fare, di non vedersi più riconosciuti in determinate mansioni che si svolgevano, la paura che il nostro ufficio venga rivisto nelle sue procedure e così via. Sono tutte paure legittime e diventa quindi importante laddove andiamo a cambiare determinati servizi prendercene cura quindi non prenderci cura esclusivamente del lato cognitivo e difensivo.
Presenteremo ora uno strumento utilizzato in ambito organizzativo che è l’analisi SWOT (punti di forza – Strengths, debolezza – Weaknesses, opportunità – Opportunities e minacce – Threats) utilizzata quando un organizzazione si pone un obiettivo di cambiamento rispetto a qualcosa e vuole predisporre una metodologia di analisi puntuale, il più possibile sistemica, che vuol dire avere ben presente cosa c’è un dentro l’organizzazione e cosa c’è fuori di essa. Lo strumento proposto offre la modalità per ragionare sui punti di forza, debolezza, minacce ed opportunità. La SWOT parte da alcune riflessioni che spesso con motti e slogan guidano le organizzazioni, come quando ad esempio si pensa che il nemico sia là fuori. Un autore che si è molto occupato di organizzazioni è Peter Senge che in un libro di qualche anno fa parla proprio di “il nemico è là fuori” che è quando l’organizzazione identifica un nemico esterno, che possono essere quelle che identifichiamo come minacce, pensando che ci sia un fuori che non ha un impatto e che non sia in qualche modo interdipendente col dentro. Quindi il pensare che la battaglia da compiere è con un nemico esterno, evita di prendere visione di quali possano essere gli aspetti, le risorse e le leve interne all’organizzazione che invece ci aiutano a cambiare in meglio.
L’utilizzo della SWOT è quello di vedere un’organizzazione che vuole promuovere un cambiamento, ma è anche un’utile strumento di verifica perché dà modo di valutare anche gli aspetti di criticità. Prima si diceva che spesso visioni a lunga gittata non funzionano perché ostacolano una cosa importante nelle organizzazioni, che è proprio quella di apprendere dalle esperienze, ossia mi do uno strumento di analisi ma su processi che dureranno troppo nel tempo. Addirittura la letteratura ci da delle coordinate temporali, uno o due anni possono essere un buon periodo per fare una verifica rispetto a dei cambiamenti pensati al di là dei quali l’effetto della verifica non funziona proprio perché non ho spesso il tempo di vedere i risultati delle scelte prese. Peter Senge dice che spesso si ha l’illusione di apprendere dall’esperienza, ma questo non succede se si costruiscono progetti di cambiamento troppo in là, quindi un buon periodo è uno-due anni.
Rispetto al valutare un’ipotesi di cambiamento, le risorse e i punti di forza , spesso siamo portati a vedere prima ciò che non funziona, ma nelle organizzazioni spesso c’è qualcosa che già funziona, risorse, un sapere consolidato, un’esperienza che ha prodotto apprendimento organizzativo ed è su quello che si va a fare un elenco . Poi ci sono dei punti di debolezza cioè aspetti critici interni all’organizzazione, le linee d’ombra. Poi sappiamo che c’è un confine che demarca l’organizzazione e che la mette in contatto con l’esterno quindi, rispetto al lavoro che si fa sulle minacce, per individuarle si prova a fare un’analisi sul fuori minaccioso e negativo, dove però il fuori ha degli elementi di minacce e tante volte sono quelli che vengono sottovalutati immaginando un cambiamento troppo autocentrato all’interno che non tiene conto di una cornice di livello superiore e che impatta decisivamente sull’interno.
L’analisi SWOT aiuta ad avere una visione d’insieme globale il più ampia possibile e se vogliamo anche il più complessa possibile. Minacce ma anche opportunità esterne, ad esempio le risorse del territorio, la rete, non utilizzate, che finché non le utilizzeremo non ci aiuteranno a raggiungere i nostri obiettivi. Però l’analisi non è un mero elenco perché quello che è già un apprendimento di cambiamento è ciò che porta a trasformare i punti deboli in qualcosa che possa essere utilizzato come punto di forza, come direbbero gli psicologi come fare del limite risorsa, delle minacce opportunità, lavorare per un’opportunità possibile di trasformazione, cercare di commissionare al meglio le opportunità esterne con le risorse già presenti e qui si coglie il tentativo di vedere in modo contemporaneo il dentro e il fuori. Questa è l’analisi SWOT.
Le domande a cui risponde questa analisi riguardano cosa a livello interno ostacola il cambiamento, cosa lo favorisce e quali sono i processi, perché avete colto che quando si parla di cambiamento, l’elemento processuale è importante. Poi a livello esterno cosa ostacola il cambiamento, cosa lo favorisce e anche qui attraverso quali processi. Prima si dicevano due cose importanti che volevamo tradurre in motto per aiutarci a riflettere. La prima è che il ruolo dei responsabili anticorruzione non deve diventare quello che Peter Senge chiama “io sono la mia posizione”, quindi la credenza illusoria di essere identificati con quel ruolo, ma in questo senso dimenticarsi anche che c’è una rete di collaboratori che contribuiscono e hanno la stessa corresponsabilità. La seconda è l’illusione di apprendere dall’esperienza dandosi delle prospettive troppo ampie non curando la condivisione, la partecipazione di quella visione comune che è visione solo se condivisa. Peter Senge parla proprio della capacità di costruire visioni comuni, quindi partecipate.
Vorrei chiudere con un aneddoto che ci illumina poi su quanto il cambiamento debba essere graduale e come un ostacolo può diventare risorsa ed è l’aneddoto della rana bollita. Una rana se gettata in una pentola di acqua bollente tendenzialmente reagirà in modo funzionale adattivo cercando di uscire da questa pentola, se noi invece prendiamo la rana e la mettiamo in una pentola con acqua a temperatura ambiente, se la pentola viene scaldata gradualmente, molto lentamente, vedremo che all’inizio dai 21 ai 27 gradi non solo la rana non si muove, ma anzi mostra chiari segni di contentezza nello stare dentro la pentola. Pian pianino la temperatura si alzerà finché la rana darà segni di cedimento ma a quel punto non avrà più le forze e le energie necessarie ad uscire. Questo vuol dire che la rana cambia, ma cambia molto gradualmente i suoi parametri interni che le consentono di adattarsi al cambiamento graduale della temperatura. Peter Senge ci dice che nelle organizzazioni dobbiamo cercare di creare contesti di cambiamento graduali e ci dice che per fare questo bisogna rallentare molto i nostri ritmi per ottenere dei cambiamenti che eviteranno resistenze. L’acqua bollente è metafora del cambiamento repentino e totale che provoca una reazione consona e sana, la rana in modo funzionale attiva i muscoli per fare il salto. Se invece vogliamo ottenere un cambiamento duraturo dobbiamo passare attraverso micro cambiamenti che consentono di far adattare il sistema rana al sistema temperatura.
L’analisi SWOT, che tra l’altro richiede tempo, vuole essere un po’ la metafora del fatto che per analizzare qualcosa e ottenere un cambiamento, nel nostro caso specifico se vogliamo che i piani per la prevenzione della corruzione siano un apprendimento organizzativo, si deve avere tempo e fare analisi puntuali.